Doing nothing and being nobody

 

 

La ricerca di Giacomo Segantin – incentrata sul rapporto fra azione antropica e territorio, inteso come risultato di processi coevolutivi di lunga durata fra insediamento umano e ambiente – non si caratterizza per una tipologia omogenea di opere. Installazioni ambientali site specific, video e fotografia sono alcuni dei medium che compongono una produzione multiforme nata dall’esigenza di articolare la complessità del paesaggio. 
Nel tentativo di aprire una frattura all’interno dello storico paradigma culturale che oppone l’umano alla “natura”, Giacomo Segantin realizza azioni, interventi e immagini – spesso derivate da una processualità al limite del performativo – che possono essere intese come riflessioni aperte sulla percezione stessa delle cose.
La natura fragile e temporanea di molte delle azioni che sono alla base dei suoi lavori, riprende l’aspetto indefinito, imprevedibile e spesso transitorio della dimensione naturale con cui egli interagisce.
Le sue opere sono una forma di elogio all’ambiente e al paesaggio, alla loro consistenza mutevole, inafferrabile e in perenne divenire.

 

 

 

 

L'artista in dialogo con Andrea Lerda

 

Giacomo, raccontami da dove nasce questo tuo interesse per il paesaggio e come lo stai sviluppando all’interno della tua ricerca.

 

Mi ha sempre affascinato osservare il territorio e studiare il paesaggio. Gli spazi sono dei conglomerati di storia. Ciò che è chiamato natura è già intriso di cultura.
Nella mia pratica spesso innesco processi e installazioni temporanee che riflettono sull’identità dei luoghi e sui rapporti produttivi fra attività antropiche e territorio. Per questo motivo spesso lavoro con un approccio lento e specifico al contesto in cui mi trovo ad operare.
In una prima fase la ricerca sicuramente è un aspetto molto importante e spesso viene sintetizzata e restituita attraverso le immagini.
Credo che oggi sia fondamentale sviluppare un pensiero ecologico più profondo e per questo il mio sguardo era puntato verso nord, dove l’ecologia e le tematiche ambientaliste hanno un peso molto più rilevante.

 

 

 

 

Di recente hai preso parte a una residenza in Finlandia. Il contesto, sia artistico che ambientale, nel quale sei stato chiamato è decisamente unico. Mi racconti questa esperienza?

 

Mustarinda è un’organizzazione no profit fondata nel 2010 e concentra la sua attività nella casa Mustarinda, situata ai margini della riserva naturale di Paljakka, a Kainuu in Finlandia. Questa foresta secolare possiede una ricca biodiversità ed è un’estensione del cuore della riserva, un’area protetta inaccessibile all’essere umano, in cui la foresta primaria cresce inalterata da più di cinquecento anni. La casa è una vecchia scuola elementare costruita negli anni ’50, ristrutturata e resa autosufficiente da un punto di vista energetico grazie a degli impianti geotermici integrati ad altre energie rinnovabili. Attorno alla casa si trovano il giardino, l’orto, la serra e la sauna. Come si può immaginare la residenza è molto diversa in base al periodo dell’anno. A febbraio la temperatura media era di dieci gradi sotto lo zero e fuori il terreno era coperto da almeno ottanta centimetri di neve.
La residenza, dal carattere interdisciplinare, spesso coinvolge figure non strettamente legate al campo dell’arte contemporanea come ad esempio educatori, attiviste, ricercatrici scientifiche etc. Il programma di residenza non è strutturato rigidamente ma è principalmente autogestito. Ognuno è libero di lavorare sulla propria ricerca, senza vincoli e non si è obbligati a produrre un nuovo lavoro. Per questo la residenza apre a diverse possibilità: può essere sia un’occasione di lavoro intensivo che un momento di riflessione, una pausa. È un contesto che ti invita a rallentare e a pensare sulla qualità delle relazioni e non sulla quantità.



Come si svolgeva la tua giornata tipo?

 

Una giornata tipo? Sveglia alle sette, colazione, un’ora di camminata nella foresta e alle nove nello studio al lavoro. Un pranzo veloce e alle cinque ci si trovava per un momento di confronto, in compagnia. Difficile stabilire il confine fra svago e lavoro, impossibile distinguere momenti informali da momenti preziosi e stimolanti. Molto silenzio e tanta osservazione.
Questo isolamento dalla realtà ti porta a ripensare non solo al rapporto distaccato che in genere abbiamo con il nostro ambiente ma soprattutto al ritmo frenetico e iper produttivo del lavoro e delle nostre vite. E il lavoro culturale non fa eccezione, anzi porta a delle pratiche di auto-sfruttamento dalle quali è difficile sottrarsi.

 

 

 

 

Il luogo co-crea l’opera. Mi pare che questo accada frequentemente nella tua pratica. Anche in questo caso, l’ambiente in cui sei stato ha avuto un ruolo molto forte. Su cosa hai lavorato durante questo tempo di residenza? In che modo questa esperienza è stata di ispirazione per la tua ricerca e per il tuo pensiero?

 

In questa residenza ho deciso di concentrarmi sulla produzione e sugli strumenti del lavoro culturale. Il fatto di non essere obbligati a produrre qualcosa mi metteva in una condizione di libertà spiazzante. Provavo quasi una sorta di disagio. Quindi ho deciso di lavorare proprio su questo. Questa particolare condizione di libertà ti permette di osservare e di vedere meglio.

 

Cosa significa produrre all'interno del sistema dell'arte contemporanea e quali sono i nostri strumenti di lavoro? Quali ritmi produttivi dobbiamo sostenere per risultare efficienti?

 

Ad un certo punto è nata la necessità di dare una forma visiva a tutte queste riflessioni. Ho sviluppato una video proiezione in cui l'immagine di un'area di lavoro viene proiettata su una porzione del paesaggio innevato. Un incontro assurdo e improduttivo. L'ansia da prestazione viene esorcizzata contemplando la distorsione dell'immagine del dispositivo di lavoro per eccellenza: il desktop del proprio pc. Mi piace pensare a questa azione come uno spettacolo inutile, a metà strada fra delle prove tecniche di proiezione e il momento che precede una presentazione.

 

Un elogio alla libertà di non lavorare, un elogio alla possibilità del fallimento. È un lavoro che ha a che fare con la contemplazione e il perdere tempo.

 

Un lavoro perfetto per il contesto di Mustarinda. Neanche a farlo apposta, proprio il giorno della mia partenza da Helsinki, è stato pubblicato da HIAP (Helsinki International Artist Programme) un articolo che trattava degli stessi argomenti. Scritto da Adel Kim, una curatrice di base ad Helsinki, coinvolta nel progetto Reside and Sustain un progetto di ricerca che esamina il ruolo delle residenze in vari aspetti della sostenibilità. E proprio in relazione alla sostenibilità e ad un approccio ecologico l’autrice prende in esame i ritmi e le modalità produttive all’interno dell’arte contemporanea. Ricorda il momento del lockdown, sottolineando quanto l’inattività umana sia preziosa per una ripresa ecologica ambientale. Un articolo sull’ozio e il valore del perdere tempo, sintetizzato in queste domande:

 

“Can non-doing be a valid strategy not only for our personal wellbeing, but also for ecologically oriented residencies ? In the world driven by achieving and production, can we make a pausing legitimate; zoom out, create space for thoughts, and just be ?”. L’ho trovato talmente coerente con la mie riflessioni che ho deciso di intitolare il mio lavoro allo stesso modo del testo di Adel Kim: doing nothing and being nobody

 

 

Per tutte le immagini: courtesy Giacomo Segantin