Opere di Marina Caneve

Testo di Maria Chiara Wang

  


Marina Caneve (Belluno, 1988) è più di una fotografa, è una narratrice per immagini che alterna nel suo fare artistico: osservazione, ricerca, documento e poesia. Affascinata dal pensiero multidisciplinare lavora per stratificazioni ed esplora i cortocircuiti generati dalla contaminazione tra saperi e visioni diversificate. I suoi progetti nascono prevalentemente dalla messa in discussione delle narrazioni frontali e stereotipate rispetto ai temi della vulnerabilità ambientale e sociale. 
Il percorso dell’artista bellunese è insolito: al termine del corso in laurea in architettura, al momento della tesi, l’epifania, ovvero la scelta – al fianco del Professor Guido Guidi, co-relatore - di studiare l’uso della fotografia nell’analisi urbana a cui fanno seguito le specializzazioni prima in Svizzera e poi in Olanda. 

 

 

Marina Caneve, Are They Rocks or Clouds?. Courtesy l'artista

 


Da quel momento il paesaggio diventa un espediente per esplorare le questioni della contemporaneità, un paesaggio umano, culturale e sociale, un paesaggio che - citando Robert Adams al quale spesso si rifà la stessa Caneve - è frutto di tre verità: una autobiografica, una metaforica e una geografica. Da qui la necessità di impiegare un approccio multidisciplinare per scoprire e riportare vari punti di vista. I racconti vernacolari si intrecciano così a saperi diversi ricercando il ruolo di immagini prodotte in altre epoche e in contesti diversi rispetto al soggetto che di volta in volta viene trattato; l’esperienza personale viene affiancata all’analisi scientifica in un connubio che include anche l’osservazione, l’ascolto e l’intuizione. Il risultato è la realizzazione di una visione partecipata, organica e plurale. 

Ma per capire meglio ciò che si è appena descritto e integrarlo con un altro aspetto importante della produzione dell’artista - vale a dire l’indagine relativa alla propria autorialità e alle ragioni che inducono la creazione - si porteranno ad esempio alcuni progetti sia commissionati che autoriali. La disamina inizia con il pluripremiato Are They Rocks or Clouds? che si configura come una indagine sulla vulnerabilità umana a cavallo tra descrizione, documentazione e immaginazione. Il tema del rischio idrogeologico che caratterizza le montagne dolomitiche viene trattato a partire dagli studi geologici e dalla teoria dei tempi di ritorno, secondo la quale la catastrofe accaduta nel 1966 potrebbe verificarsi nuovamente a distanza di 50 anni, vale a dire nel 2066.

Lo sguardo della Caneve è uno sguardo empatico ma disincantato, clinico - in grado di controllare la fascinazione esercitata dall’ambiente - ma al contempo poetico. L’opera realizzata tra il 2015 e il 2019 si colloca in un periodo ‘di mezzo’ lontano dalla contingenza dell’evento già accaduto e a distanza dall’urgenza del possibile successivo, consentendo così il giusto distacco da ciò che viene raccontato. Il rischio viene mostrato attraverso i suoi effetti e basandosi sulla percezione che ne ha la popolazione che vive in questi luoghi. Are They Rocks or Clouds? nasce come libro autoriale e, solo in seguito, l’artista ne ha sviluppato anche una versione installattiva. La pubblicazione contiene i contributi testuali di Taco Hidde Bakker (scrittore e curatore), di Emiliano Oddone (geologo) e di Annibale Sala (antropologo), immagini in bianco e nero tratte da archivi privati che rappresentano la testimonianza diretta di chi ha vissuto la catastrofe, immagini di repertorio senza finalità artistiche delle quali Caneve si riappropria attribuendone un nuovo significato e alle quali affianca i propri scatti a colori che ritraggono il paesaggio contemporaneo, il tutto secondo una stratificazione di piani che ricorda quella delle rocce dolomitiche. 

 

 

Veduta della mostra Di roccia, fuochi e avventure sotterranee, a cura di Alessandro Dandini de Sylva, MAXXI (Roma, 2021)

 


E la montagna come luogo di sperimentazione e sistema di investigazione privilegiato per la sua storia, bellezza, fragilità e complessità è al centro dell’ulteriore riflessione critica sul paesaggio alpino trattata nel progetto Entre chien et loup realizzato nel 2020 a seguito di un bando promosso dal Museo della Montagna di Torino nato per costruire delle visioni contemporanee a partire dagli archivi del Museo. Il progetto è stato poi oggetto di una mostra curata da Veronica Lisino e Giangavino Pazzola. Il titolo, Entre chien et loup, trae origine dall’espressione francese di origine latina che indica il momento del tramonto nel quale la luce non consente di distinguere bene un cane da un lupo, espressione che ha innescato in Caneve la curiosità di indagare le strutture della conoscenza e le modalità mediante le quali si crea la memoria culturale, l’immaginario collettivo.

L’artista lavora sugli stereotipi legati alla montagna per decostruirli, decolonizzarli; per questo viene scelta la vetta più iconica e simbolica come paradigma dal quale partire: il Monte Cervino. Le immagini in mostra vengono allestite come un’installazione ambientale secondo una giustapposizione di materiali di fattura diversa (stampe incorniciate, installazioni di stampe su paesaggi a larga scala, riproduzioni di giochi, riproduzioni di immagini tecniche e di negativi su vetro dall’archivio) in un percorso da esplorare e nel quale scoprire, tappa dopo tappa, i diversi aspetti legati all’immaginario montano, in una fruizione che non è lineare ma costituita da interferenze nella percezione tra fraintendimenti, conferme ed epifanie. Viene così offerto al pubblico un nuovo modo di osservare il territorio. 

 

 

Marina Caneve, Entre chien et loup. Courtesy l'artista

 


Concludiamo la rassegna con Ippodamo, progetto realizzato su committenza privata, ovvero dalla Ghella S.p.A. nel 2020 e curato da Alessandro Dandini de Sylva, per costruire una visione sul cantiere per l’estensione della Linea 3 della metro ateniese. Il titolo della serie trae il nome dalla macchina TBM (Tunnel Boring Machine): la fresa meccanica utilizzata per lo scavo delle gallerie; ma Ippodamo (da Mileto) è anche uno dei padri dell’urbanistica moderna e figura controversa definita da Aristotele “Μετεωρολόγος” ovvero colui osserva i fenomeni celesti o, in maniera meno lusinghiera, colui che guarda il cielo. E questo stesso approccio disciplinato ma al contempo libero alla materia trattata è stato adottato da Caneve in questo suo lavoro che affianca diverse prospettive rispetto al modo in cui l’infrastruttura interagisce con la città: quella della storia testimoniata dallo scavo, dai carotaggi estratti dal terreno, dai reperti ritrovati scavando, e quella di superficie moderna e contemporanea. 

Ancora una volta una stratificazione visiva che si rivela essere cifra stilistica dell’artista, così come la decodifica del paesaggio attraverso il dialogo parallelo tra frammenti ed elementi di varia natura. Memoria, storia, ecologia, scienza, poesia: ognuno di questi linguaggi e prospettive concorre a delineare una nuova scrittura del territorio. 

 

 

 Marina Caneve, Athens Metro Line 3 Extension, 2020. Courtesy l'artista