Tree Time
A cura di Andrea Lerda
Museomontagna, Torino
30.10.19 - 23.02.20

 

 

Il tempo dell'albero


In questo inizio di XXI secolo, l’umanità apre gli occhi sulla gravità della crisi ambientale globale.
Giovani di tutto il mondo si organizzano e si mobilitano a milioni in favore del clima, sottolineando l’importanza di agire tempestivamente.
Il susseguirsi temporale di emergenze concatenate, che osserviamo attraverso la lente dei media, è la testimonianza di un cortocircuito conclamato degli equilibri naturali.
Il 2019 sembra essere l’anno in cui enormi disastri ai danni del mondo vegetale hanno riportato all’attenzione dell’opinione pubblica la fondamentale importanza di alberi, boschi e foreste.
Il mondo riscopre la loro esistenza, e lo fa ‒ ancora una volta ‒ grazie alle immagini inquietanti che provengono dallo spazio. 
È il tempo dell’albero, delle fotografie di schianti e di fuochi che ardono. Un tempo in cui dati scientifici, stime dei danni e frettolosi summit sul clima, si mescolano ai racconti disperati dei popoli indigeni e di chi abita la montagna.

 

La decisione di proporre un progetto espositivo su questo tema ‒ presa poco più di un anno fa ‒ non poteva prevedere un’escalation di eventi catastrofici così importante.
Dalla Tempesta Vaia ‒ che già nel 2018 abbatté intere foreste nel Nord Italia ‒ agli incendi senza precedenti che hanno recentemente devastato l’Artico. Dal fuoco doloso, utile alle dinamiche industriali, alla deforestazione della Foresta Amazzonica che annienta biodiversità e habitat culturali, aggravando le emissioni di CO2 nell’atmosfera e accelerando il riscaldamento globale.
Fino alle notizie più recenti che giungono dall’Indonesia, dove cieli tinti di rosso disegnano ambientazioni e scenari da fine del mondo.
Problematiche note da tempo e dinamiche patogene inedite, il cui aggravarsi e intensificarsi a causa del climate change, genera preoccupazione anche nei poteri forti, nazionali e internazionali.

 

Craig Richards, Mubende tra Kampala e Fort Portal, 2006;
Vittorio Sella, Grande albero nella foresta bassa della Valle Bujuku (Ruwenzori), 1906 [ripresa], 1934-1940 [stampa] stampa alla gelatina bromuro d’argento con viraggio a doppio tono; Cascata Buamba nella valle Mobuku a 3518 metri (Ruwenzori), 1906 [ripresa], 1934-1940 [stampa], Centro Documentazione Museo Nazionale della Montagna – CAI Torino

Alla domanda se l’albero e l’uomo possano vivere l’uno senza l’altro, Francis Hallé risponde che “l’asimmetria ci è sfavorevole perché l’albero non ha in alcun modo bisogno di noi, mentre per noi è essere vitale” [1]. In un processo di trasformazione naturale e di adattamento costante alle modificazioni ambientali imposte dall’impatto antropico, alberi, boschi e foreste mutano e muteranno il loro aspetto, pur conservando la capacità di rinascita che contraddistingue il mondo vegetale. Per il benessere e per la sopravvivenza dell’uomo sulla Terra è quindi impellente un percorso curativo che inverta la rotta verso la quale marcia l’umanità.
È dunque il tempo del cambiamento nel modo di immaginare le foreste, di vedere gli alberi e di proteggere la montagna. È il tempo del cambiamento nell’agenda delle priorità politiche locali, nazionali e globali. Un tempo in cui serve riconsiderare le modalità di disboscamento, sfruttamento e gestione delle aree boschive, nonché del ruolo che gli alberi rivestono all’interno di città sempre più affollate e influenzate dal global warming. 
Tre milioni di nuovi alberi entro il 2030: è la proposta di Stefano Boeri sposata con convinzione dal sindaco di Milano, Beppe Sala. Un imponente progetto di piantumazione e di forestazione urbana che guarda al futuro. Qualcosa di simile accadrà a Torino che, nonostante il titolo di città più verde d’Italia, mantiene secondo Legambiente il primato di metropoli tra le più inquinate d’Europa.
Nulla di rivoluzionario, s’intenda. Piuttosto, operazioni tardive che in campo artistico videro Joseph Beuys tra i precursori più noti del concetto di “piantumazione in difesa della natura”. Era il 1982 quando, invitato a partecipare a Documenta VII, l’artista ‒ in quell’occasione contadino sciamano ‒ presentò l’opera Le 7000 Querce. Prendeva così il via un’inedita azione artistica tutt’oggi in fase di crescita e di trasformazione. Niente musei, niente esposizione, piuttosto una semina come nuovo modo di fare arte e di prendere coscienza di un problema ambientale, sociale e culturale. Temporalmente successiva ad altre sue azioni in difesa di alberi e foreste, come nel caso di Retten den wald (Save the Forest) del 1971, la pratica sociale di Beuys trova una corrispondenza teorica nel suo manifesto del 1981, titolato An Appeal for an Alternative. Indicando la crisi ecologica come uno dei quattro sintomi della crisi del tardo capitalismo, scrisse:

 

Our relationship to nature is characterised by its having become throughly disturbed. There is the threat of total destruction of our fundamental natural basis. We are doing exactly what it takes to destroy the basis by putting into action an economic system which consists in unscrupulous exploitation of this natural basis…Between the mine and the garbage dump extends a one-way street of the modern industrial civilisation to whose expansive growth more and more lifelines and life cycles of the ecological systems are sacrificed [2].

 

Ma dagli anni Settanta, altri artisti hanno condiviso questo bisogno di reazione mediante pratiche artistiche che potremmo definire attive. Membro fondatore del “Grupo Bosque” (Forest Group), Nicolás García Uriburu partecipò nel 1974 alla campagna di reforestazione a Maldonado, in Uruguay, e condusse tre decenni di spedizioni tra Argentina ed Europa per piantare alberi. Dall’azione del 1980, in difesa degli alberi di banano a Buenos Aires, alla piantumazione di piante locali lungo le vie della capitale argentina, o di pini nell’est dell’Uruguay nel 1987.  Sono gli anni in cui Pierre Restany, co-autore del “Rio Negro Manifesto: On Integralism Naturalism”, sostenne le azioni di riforestazione e le proteste contro la distruzione della Foresta Pluviale Amazzonica.
Esperienze storiche che hanno trovato seguito nei lavori di artisti come George Steinmann che, dal 1997 al 2006, ha lavorato a Komi - A Growing Sculpture. Un progetto in difesa della foresta vergine di Komi, la più vasta esistente in Europa, patrimonio mondiale dell’UNESCO, che come molte altre foreste è a rischio di distruzione per ragioni ambientali ed economiche.
Oppure esperienze più recenti, come quella realizzata nel 2009 dal duo 431art. Come protesta contro la decimazione di una foresta di faggi per fare posto alla nuova pista di atterraggio  dell’aeroporto di Francoforte, gli artisti hanno disseppellito 33 giovani faggi, per ripiantarli all’interno di una “colonia d’artista” come parte del loro progetto botanoadopt tutt’ora in corso.
Fino alla provocatoria installazione di Klaus Littmann - artista svizzero già allievo di Beuys - che dal 9 settembre al 27 ottobre del 2019 ha “installato” un bosco autoctono sul campo da calcio dello stadio di Klagenfurt, in Carinzia. Il gesto, ampiamente diffuso dai media, può essere definito una sorta di “scultura sociale” che cerca di diffondere il concetto di piantumazione sia come pratica che  come esercizio per quella coscienza ecosostenibile che ci insegna Greta Thunberg.

 

Hannes Egger, Silvani, 2019, mixed media dimensione ambientale, courtesy l’artista;
Lucy+Jorge Orta, disappearance, 2015 HD video 7’31’’, courtesy gli artisti

Oggi la mappa delle proprietà curative riconosciute agli alberi è decisamente ampia. La loro ombra rinfresca il caldo estivo sempre più crescente, ammortizzando l’impatto del sole sulle città lastricate di asfalto. Il loro potere di traspirazione aumenta l’umidità dell’aria e ne diminuisce la temperatura; quello di assorbimento dell’anidride carbonica consente di ripulire ciò che respiriamo dalla CO2 e da altri agenti inquinanti. Inoltre, gli ioni negativi che queste creature silenziose producono hanno un’influenza benefica sulla nostra salute e sul nostro umore.  
Tiziano Fratus invita le persone a camminare nei boschi per apprendere la saggezza tra le foglie degli alberi. Nicolas Bourriaud parla della foresta come di un “paesaggio della mente” e del pensiero umano come un luogo analogo, “la cui vegetazione è costituita da sinapsi, neuroni e neurotrasmettitori” [3]. Peter Wohlleben ha dimostrato che gli alberi emettono segnali e si comportano come esseri sociali. Mentre in The secret life of plants, Peter Tompkins con Christopher Bird raccontano di misteriosi e affascinanti dinamiche di comunicazione e di percezione extrasensoriale dei vegetali e di come le piante siano in dialogo con la nostra anima.

 

È tempo della “trans-socialità”, di un nuova rivoluzione linguistica che sappia tradurre in maniera decifrabile i diversi linguaggi della natura. Il tempo di una meta-sensibilità e dell’ascolto; della simbiosi con le altre “reti sociali” che ci circondano e del dialogo trasversale con tutte le altre comunità con cui condividiamo questa Terra.

 

Giusy Pirrotta, The Secret Life of Plants, 2019 installazione multimediale dimensione ambientale, courtesy l’artista e Galleria Massimodeluca, Mestre Venezia;
Sunmin Park, Architecture of Mushroom, 2018 single channel video 15’18’’, courtesy l’artista

Perché dunque non trasformare un polmone cittadino in una palestra di saggezza? È a partire da questo interrogativo che nasce l’idea del progetto Urban Forest, perno centrale attorno al quale ruota il public program della mostra Tree Time. L’iniziativa riunisce un team di esperti chiamati a condurre un laboratorio progettuale di analisi, studio e ripensamento del bosco urbano che circonda il Monte dei Cappuccini di Torino. 
In linea con le manovre che la situazione ambientale impone di mettere in atto, Urban Forest è fucina di idee, attivatore di un cambiamento, luogo per il futuro.
Microcosmo boschivo cittadino in cui l’immagine della montagna, quella del bosco e degli alberi, raccontano di meccanismi, strategie e azioni di cura da adottare a livello globale. Atanor all’interno del quale bruciare le impurità del nostro tempo, in un’esperienza alchemica di purificazione e di riconnessione con la nostra precedente vita arboricola.
La mostra prosegue in questo senso il cammino intrapreso nel 2018 dal Museomontagna e volto a indagare le principali problematiche ambientali che vedono protagonista la montagna in questo inizio di XXI secolo. Nel farlo, evade dalla sola dimensione espositiva, e decide di intervenire in quella più pragmatica della vita reale, avviando dunque un percorso progettuale indirizzato alla comunità, che tenti di dare seguito alle suggestioni offerte dal percorso espositivo.
Mostra e public program diventano due identità complementari che puntano a innestare procedure sociali di cambiamento. Percorsi studiati e pensati in accordo con la scienza, la ricerca e con gli organi della municipalità cittadina. Perché l’arte non resti all’interno dei suoi spazi deputati ma debordi in un processo creativo di contaminazione e di germinazione culturale.

In Tree Time si condensano esperienze del passato, moniti del presente e auspici per il futuro. Il progetto sviluppa il proprio percorso programmatico prendendo esplicitamente spunto da una serie di momenti del passato tematicamente significativi. La mostra disegna infatti un ponte storico con due eventi che si tennero negli stessi luoghi in cui oggi prende corpo questa mostra. La fondazione a Torino, nel 1898, dell’“Associazione Pro Montibus per la protezione delle piante e per favorire il rimboschimento”, e la prima “Festa degli Alberi”, celebrata presso la Palestra del Club Alpino Italiano al Monte dei Cappuccini di Torino, il 18 settembre dello stesso anno alla “presenza di Sua Maestà il Re Umberto I”.
L’occasione fu utile per la realizzazione di un congresso attraverso il quale diffondere un nuovo senso di cura dei boschi, degli alberi e della montagna nel suo complesso.

 

È l’impresa nostra, infatti, per quanto semplice, chiara, d’evidente, indiscutibile, generale utilità, non facile pei tempi che corrono, nell’ambiente in cui viviamo. Trattasi non solo di persuadere gli italiani a desistere dal denudare monti e pendici, ma d’avviarli a riparare i guai già avvenuti col propugnare e divulgare i migliori precetti forestali, coll’indurli ad elevare serre o briglie, a prevenire o trattenere frane, a sostenere terre, a dirigere acque, a rinsaldare pendii pascolivi, a rimboschire [4].

 

Le parole di Sormanti Moretti, Presidente della neo costituita associazione Pro Montibus, argomentano un lungo e intenso discorso di apertura. Un intervento che nell’esortare il superamento di una visione speculatoria e meramente economica delle risorse boschive, apre alla riflessione su un vasto intervento di cura dei boschi, manutenzione del pensiero e salute della montagna.

 

E qua, intanto, a mezz’aria, tra la brulicante città e la vista delle più elevate vette alpine, discorriamo con animo sereno e dichiariamo quindi francamente ai cittadini, alle pubbliche amministrazioni, al Governo che, a nostro avviso, fare devesi, nel tornaconto generale della patria, e come s’ha da rimboschire i monti e rinverdire le denudate pendici, sia con foreste, sia con boschi cedui, sia, più opportunemanete, alternando zone di selve a zone di praterie, sia, altrove, moltiplicando piantagioni per togliere la perniciosa malaria ognora dominante in molti parti d’Italia [5].

 

La mostra Tree Time nasce dunque dalla necessità, oggi come allora, di rispondere a un problema urgente e a un bisogno storico di cura dell’universo vegetale. Erede temporale dell’esperienza Pro Montibus, questo progetto ne riconosce il valore storico, immaginando la possibilità di essere letto come nuovo “congresso” per la protezione delle piante e per favorire un processo di sensibilizzazione politica e sociale. 
È infatti il tempo per una nuova riflessione sui concetti di cura e di salute degli alberi; per ri-conoscere “i benefici effetti che producono i boschi sotto l’aspetto Idraulico, Meteorologico, Igienico, Sociale ed Estetico” [6]. Un tempo in cui riscoprire figure straordinarie come quella di Ermenegildo Zegna, del suo “pensiero verde”, e dell’imponente opera di piantumazione, valorizzazione e gestione dell’ambiente montano che diede vita a Trivero (Biella) all’inizio dagli anni Trenta del Novecento. Mente visionaria, animo da Pastore, spirito umile e saggio. Ermenegildo Zegna è stato precursore del messaggio d’amore per l’albero che Jean Giono affida al suo Elzéard Bouffier e dell’inscindibile sodalizio tra uomo e natura che Joseph Beuys ha racchiuso nella sua pratica artistica.
Di quell’esperienza, la mostra Tree Time propone al pubblico una serie di importanti documenti relativi al rimboschimento attuato nell’ambito del “Progetto di bonifica integrale del bacino montano del Torrente Sessera”. Inoltre, una serie di immagini dell’imprenditore mecenate lungo il percorso della strada Panoramica Zegna in fase di realizzazione tra gli anni Trenta e Sessanta del secolo scorso.

 

Il percorso espositivo mescola intenzionalmente passato, presente e futuro, attraverso le visioni di venti artisti internazionali, un nucleo di importanti fotografie e documenti storici che appartengono al Centro Documentazione del Museomontagna e alla Biblioteca Nazionale del CAI con gli spunti che provengono dal mondo della scienza e da quello della ricerca.
Il progetto è supportato da una serie di contributi storico scientifici di Matteo Garbellotto, direttore presto il Forest Pathology and Mycology Lab di Berkeley e adjunct professor presso l’Environmental Science, Policy and Management Department dell’Università della California. Alcune delle opere in mostra sono poi realizzate grazie alla collaborazione con i ricercatori del Centro di Competenza per l’Innovazione in Campo Agro-ambientale Agroinnova dell’Università degli Studi di Torino, dell’Orto Botanico di Torino e della Fondazione Edmund Mach di Trento.

 

Tree Time accoglie lo spettatore con il Grande albero nella foresta bassa della Valle Bujuku. La fotografia appartiene a una serie di scatti realizzati da Vittorio Sella nel 1906, in occasione della storica impresa durante la quale Luigi Amedeo di Savoia, duca degli Abruzzi, riuscì a raggiungere le più alte vette delle “Lunaes Montes”, le “Montagne della Luna”, vasto massiccio del Ruwenzori che si estende nella regione dei Grandi Laghi Africani al confine tra l’Uganda e l’attuale Repubblica Democratica del Congo. In quanto membro della spedizione, Sella si concentrò in modo particolare sulla ritrattistica fotografica delle popolazioni indigene e della flora locale. Consapevole di ciò che la natura e il complesso montuoso rappresentavano per i Bakonjo (Ruwenzori nella loro lingua significa “Colui che crea la pioggia”), non tralasciò di rivolgere il suo obiettivo verso un ecosistema vegetale denso, vigoroso e dal fascino primordiale. Un paesaggio di alberi imponenti, simili a giganteschi candelabri che emergono da foreste di eriche fitte e contorte, in un tutt’uno con un sottobosco ricco di muschi spugnosi e di licheni penduli.
L’immagine di Sella campeggia solitaria all’ingresso della mostra, in dialogo con l’installazione sonora di Steve Peters, musicista e compositore di suoni che traduce l’imprevedibilità dell’energia naturale attraverso partiture in cui si mescolano componenti reali e rielaborazioni elettroniche. Il suo è un desiderio di esplorazione sulle potenzialità musicali degli alberi. Ricerca che ha origine da un’escursione compiuta sui Monti Sangre de Cristo, sottocatena più meridionale delle Montagne Rocciose, in Colorado.
Nell’opera audio dal titolo Arboretum (appositamente creata per la mostra), Steve Peters attinge dal suo archivio di registrazioni su alberi vivi e morti, realizzato nel New Mexico tra il 1988 e il 2004. Alcune delle sonorità percepibili dallo spettatore non sono state modificate, altre invece elaborate elettronicamente. La dimensione prodotta è al tempo stesso naturale e artificiale. Suoni e rumori che cadono dall’alto, riempiono lo spazio di immaginari sconosciuti e di “messaggi vegetali” che il visitatore è in qualche modo chiamato a decifrare.
Il lavoro allude alla costante trasformazione delle foreste e all’inevitabile necessità da parte dell’uomo di accogliere un cambiamento nel modo di vedere e di immaginare questi luoghi. L’opera introduce quella successiva di Hannes Egger. L’artista propone un’esperienza immersiva ed esperienziale da vivere in maniera individuale. Mediante l’utilizzo di cuffie wireless, lo spettatore ha infatti la possibilità di compiere un percorso fisico e mentale in quattro tappe. Una voce narrante accompagna chi ascolta in un viaggio che mescola mito e realtà, ripercorrendo l’evoluzione del nostro rapporto con alberi, boschi e foreste, da un tempo arcaico fino ad oggi. Dimensioni magiche, riferimenti mitologici e accadimenti storici, si alternano in un’altalena di immagini che giungono fino alle scene di distruzione della Tempesta Vaia.
Scenario di desolazione che ritroviamo nel dipinto Passaggio del vento, 2019, di Paola Angelini e nel video Disappearance di Lucy + Jorge Orta. Qui una melanconica partitura per pianoforte composta da John Cage si alterna al rumore di una motosega che procede nella graduale distruzione di un albero. 
L’immaginario si lega alle parole di Walter Bonatti a commento della sua fotografia del 1988 dal titolo Vecchi faggi carbonizzati da un incendio (Patagonia, Terra del Fuoco, Valle del Rio Tunel):

 

Per due giorni continuiamo a risalire l’ampia vallata dove le paludi si alternano a dense boscaglie, o a foreste di giganteschi Coihue (Nothofagus betuloides), il bellissimo faggio magellanico dall’alto fusto e dalle foglie verdi tutto l’anno. 
Incontriamo però con relativa frequenza il vuoto improvviso lasciato da un bosco incenerito: squallida testimonianza di un irresponsabile metodo di colonizzazione, il peggiore che si possa concepire per creare nuovi pascoli. Quell’opulenta vegetazione certamente terribile da penetrare, ma che tuttavia è espressione di eternità della vita e dell’equilibrio che la governa, diventa all’improvviso scheletro di se stessa. Con le forme che sembrano quasi braccia imploranti e gesti di dolore, salgono dalle ceneri migliaia di bianchi tronchi, ossuti e caotici. Non posso fare a meno di pensare alle leggi promulgate, ma impotenti a evitare la distruzione degli ultimi paradisi terrestri. Dover penetrare attraverso quei cimiteri osceni, di ciò che fu natura irripetibile, stringe il cuore; e se ne esce segnati come spazzacamini.

 

Viaggiando emozionalmente all’interno di una narrazione multisensoriale, giungiamo così all’interno del primo e fondamentale nucleo tematico della mostra. L’evento meteo che ha interessato molte aree del Nord Italia alla fine del 2018 costituisce infatti l’incipit per una sere di riflessioni in materia di gestione e di cura dei boschi. All’interno di questa sezione le opere indagano il fenomeno dell’impatto antropico e la relazione tra il global warming e l’accentuarsi dei meccanismi patogeni nel post-Tempesta Vaia.
L’opera Forest #22 di Santeri Tuori è una personale riflessione sui concetti di tempo, cambiamento e percezione. La fotografia, in quanto accumulo di immagini di alberi fotografati in momenti e stagioni diverse e dallo stesso punto più e più volte, produce l’effetto di una foresta immaginaria, incredibilmente fitta. Il lavoro fa riferimento alla densità e alla qualità dei boschi interessati dall’evento meteo e alle diverse posizioni rispetto alla correlazione tra questa circostanza e il numero di alberi abbattuti. La fotografia si lega inoltre al dato attuale secondo cui la superficie boschiva in Italia è costantemente in aumento. Una situazione apparentemente positiva ma che rivela aspetti complessi e problematici, imponendo la necessità di una riflessione sul concetto di qualità piuttosto che su quello di quantità dei boschi.
Uno degli aspetti che abbiamo ritenuto maggiormente importante indagare nella mostra è infatti quello della salute di boschi e alberi. Ci siamo dunque domandati in quale misura il cambiamento climatico impatterà su un contesto boschivo già martoriato. Lasciando agli esperti le valutazioni se e in quale misura il climate change sia responsabile di ciò che è accaduto nel 2018, abbiamo cercato di evidenziare quali danni secondari potranno sopraggiungere in relazione ad esso.
Come confermato dai ricercatori, l’immagine degli alberi a terra e dei boschi abbattuti è solamente l’inizio di un progressivo fenomeno di alterazione e di distruzione di un ecosistema complesso che avverrà nei prossimi anni. Trovando terreno fertile nell’aumento delle temperature, due funghi patogeni in particolare - l’Heterobasidion annosum e l’Armillaria mellea - costituiscono un serio problema per la salute degli alberi e dei boschi sani che hanno superato indenni l’azione distruttrice dei forti venti. 

 

L’installazione The Secret Life of Plants di Giusy Pirrotta ‒ appositamente realizzata per questa mostra ‒ è il cuore di questa riflessione. L’artista ha dato vita a un laboratorio immaginario in cui si tenta di analizzare la vita segreta delle piante. In questo ambiente magico dall’aspetto fantascientifico, una serie di pattern, immagini video e oggetti sculturei tentano di dare una rappresentazione ideale di come avviene la comunicazione nel mondo vegetale. L’opera prende spunto dall’omonimo libro del 1973 di Peter Tompkins e Christopher Bird e rende manifeste quelle dinamiche di comunicazione tra gli alberi che consentono il passaggio di messaggi e segnali ma, al tempo stesso, il propagarsi di funghi, batteri e agenti patogeni. Si stima che l’impatto negativo di questi due funghi sui boschi superstiti potrà essere fino a cinque volte superiore l’effetto della tempesta medesima.
L’intervento di Giusy Pirrotta dialoga con le spendide fotografie di Jiří Havel scattate tra il 1987 e il 1988 nei boschi del nord della Boemia. Qui, avvolto dalla presenza ancestrale degli alberi, sviluppa il proprio interesse per la fotografia. Strumento che Havel ha utilizzato per conoscere in maniera analitica ogni angolo del bosco. Nelle quattro fotografie esposte, una serie di funghi della specie Fomes fomentarius, agenti di carie, sono aggrappati al tronco sdraiato di un albero morto. La tipologia in questione è quella di fruttiferi pluriennali a zoccolo di cavallo (anche detti ungulati) che possono raggiungere dimensioni fino a 40 cm. Corpi dalla consistenza legnosa, che continuano a fruttificare anche su piante morte o su ceppaie, e che fanno parte del grande gruppo dei funghi degradatori del legno.
Scene quelle proposte che cercano di compiere una riflessione sul mondo nascosto delle piante, sui loro apparati sotterranei e sull’universo di codici, linguaggi e mondi totalmente sconosciuti all’uomo.
Le opere presenti cercano in questo senso di offrire uno sguardo differente sulle recenti problematiche in materia di salute degli alberi, sulle loro potenzialità e sulle loro vulnerabilità.
Vanno in questa direzione le due fotografie di Luca Andreoni che appartengono a un corpus più ampio di lavori raccolti nella serie Alberi, realizzata nel 2011.
Dopo essersi addentrato all’interno di un bosco nascosto dai rovi, il fotografo vi scopre l’esistenza di un grande ceppo disteso a terra. Affascinato dagli alberi in quanto creature viventi, presenze misteriose, rigogliose e silenti al tempo stesso, ciò che tenta di fare il fotografo è di cogliere una qualche possibilità di interazione. Luca Andreoni sperimenta così nella densità e nell’altissima definizione dell’immagine “tutto a fuoco” un tentativo tecnicamente estremo di comunicazione. Il mondo cresciuto sull’albero sradicato, le sue radici capovolte ‒ monumento di un oggetto secolare e muto ‒ diventano la porta di accesso a una relazione che si distende nei tempi lunghi della natura e la cui pienezza esperienziale matura attraverso un’osservazione inedita e ravvicinata.
Il passo successivo è quello che compie Sunmin Park in Architecture of Mushroom. Una ripresa a bassa angolazione e al rallentatore di funghi cresciuti nella foresta di Gotjawal, Jeju, in Corea, nel corso del 2017. Nel video, le immagini di diverse tipologie di miceti, alcune delle quali patogene, sono accompagnate da 13 commenti sull’architettura da parte di altrettanti architetti coreani e stranieri. 
I funghi ottengono i nutrienti scomponendo la materia organica e quindi svolgono un ruolo essenziale nel ciclo ecologico di creazione e decadimento della foresta. D'altra parte sono creature viventi con una struttura architettonica composta da una colonna e un tetto, a volte in contrasto, altre volte in armonia con il concetto di stabilità architettonica.
Contestualizzato in un momento storico in cui eventi meteo eccezionali accentuano il concetto di fragilità, il lavoro di Sunmin Park ispira gli spettatori a immaginare una nuova relazione costruttiva tra uomo e natura.
Il video dialoga con l’opera del 1972, Scrive, Legge, Ricorda, di Giuseppe Penone, realizzata in una fase iniziale durante la quale l’artista compie una sere di azioni direttamente nella natura.
In questo caso Penone conficcò un cuneo in ferro - su cui erano impressi il proprio nome e la data dell’azione - nel tronco di un giovane albero. Nell’introdurre questo corpo estraneo all’interno della materia naturale, l’artista decise di compiere un gesto aggressivo, lasciando un segno indelebile del proprio passaggio. L’albero è inteso come un organismo in continua evoluzione. Il gesto, la testimonianza di uomo storico che sottomette la natura all’utilità. Con la crescita l’albero avrebbe poi assimilato il corpo estraneo.
Ne emerge un entrare e uscire da campi che analizzano i concetti di positivo e di negativo. Un dare spazio a dinamiche costruttive e degenerative della natura e dell’uomo e al loro essere in costante dialogo in un’epoca di grandi cambiamenti ambientali.
La grande scultura Árvore di Gabriela Albergaria, realizzata sulla terrazza panoramica del museo, raccoglie perfettamente tutte queste sensazioni. L’artista ha sottoposto un albero malato ‒ abbattuto per questioni di sicurezza nella città di Torino ‒ ad un processo di decostruzione, seguito  da un’operazione di ricostruzione scultorea per rifondarne la forma.
La tecnica utilizzata prende spunto dalla pratica agronomica degli innesti, impiegata per la moltiplicazione agamica delle piante. Nasce così quello che Gabriela Albergaria definisce “composit tree”. Una presenza frutto, della manipolazione umana, che diventa cortocircuito visivo della relazione uomo-natura. Nella sua presenza drammatica, sostenuta per mezzo di supporti in ferro, viti e bulloni, Árvore è al tempo stesso l’immagine di un malato terminale e l’emblema di un tentativo di rigenerazione.

 

Ursula Biemann and Paulo Tavares, Forest Law, 2014, proiezione video a un canale 32’, courtesy Ursula Biemann e Paulo Tavares

La mostra prosegue con la riflessione sulla necessità di una visione sistemica che sappia prendersi cura della montagna nella sua interezza. Il percorso espositivo propone un nucleo storico di documenti relativi alla fondazione nel 1898 della Pro Montibus. Associazione Italiana per la protezione delle piante e per favorire il rimboschimento, assieme alle testimonianze raccolte negli atti del congresso dello stesso anno, creando quel ponte storico tra passato, presente e futuro che lega problematiche di un tempo a quelle attuali. Tree Time sceglie in questo senso di dare risalto alla figura di Ermenegildo Zegna, proprio per la capacità dell’imprenditore biellese di approcciarsi alla montagna secondo una modalità “ecosistemica”. Una grande tela di Thomas Berra, dal titolo Verde Indagine (2019), sottolinea la componente visionaria del suo “pensiero verde”.
La sua non è solo la visione illuminata di chi ha consapevolezza del ruolo degli alberi all’interno dell’ecosistema naurale. Zegna guarda all’ambiente naturale nella sua interezza. Da un punto di vista ambientale ‒ dunque protezione dei versanti boschivi, salvaguardia della sicurezza e della capacità del bosco di assecondare i propri cicli e ritmi ‒ a quello sociale ed economico.

 

Boschi, foreste e alberi sono infatti una ricchezza da molti punti di vista, commerciale, culturale, turistico, e questo Ermenegildo Zegna lo aveva ben compreso. Proprio come le popolazioni indigene che abitano la Foresta Amazzonica, oggi sempre più in ginocchio. Un video emozionante quello che Ursula Biemann e Paulo Tavares hanno realizzato nel 2014. Forest Law, questo il titolo del lavoro, si basa sulla ricerca condotta dalla coppia nella frontiera petrolifera e mineraria nell'Amazzonia ecuadoriana, una delle regioni con più biodiversità e ricchezze minerali della Terra, attualmente sotto pressione a causa della drammatica espansione delle attività di estrazione su larga scala. Al centro del video una serie di casi giuridici fondamentali che hanno portato la foresta in tribunale per invocare i diritti della natura. Un processo particolarmente paradigmatico che è stato recentemente vinto dagli indigeni di Sarayuku sulla base della loro cosmologia della foresta vivente.
In relazione al video di Ursula Biemann e Paulo Tavares, al concetto di lotta e di attivismo, una fotografia del 1992 di Wolfgang Tillmans dal titolo Lutz & Alex sitting in the trees. Il lavoro è un riferimento esplicito a Julia Butterfly Hill. L’attivista ambientale che visse per 738 giorni, dal 10 dicembre 1997 al 18 dicembre del 1999, sulla sequoia gigante poi battezzata “Luna”. La battaglia, vinta dalla Hill, si svolse contro la Pacific Lumber Co., azienda che voleva disboscare e radere al suolo una consistente parte di foresta dei “Big Tree” americani.
Proprio alle sequoie, e alle numerose fotografie che Walter Bonatti scattò a questi alberi, è dedicata la sezione successiva della mostra. Oltre 150 diapositive sono proiettate a parete e proposte al pubblico su un tavolo luminoso. Le immagini fanno parte del grande numero di istantanee realizzate da Bonatti in occasione del suo viaggio tra le sequoie giganti dello Yosemite. Progetto realizzato per la prestigiosa rivista Epoca, con la quale il fotografo, esploratore e prima ancora alpinista italiano, iniziò la collaborazione a partire dal 1961.
Nel numero 1413 del settimanale, pubblicato il 2 settembre 1977, di cui in mostra è esposta una copia autentica assieme ad alcuni suoi appunti originali, Walter Bonatti definì le sequoie come “i colossi che dominarono l’era dei dinosauri”. Leggendo il testo pubblicato è possibile notare come Bonatti non si limiti a immortalare la maestosità di questi alberi. Piuttosto, come la sua descrizione dia spazio a una lettura storica e tecnica al tempo stesso. Ne emerge l’immagine di alberi tenaci, resistenti al fuoco e alle aggressioni microbiche. Veri e propri simboli di longevità. È però emblematico il fatto che oggi anche questi alberi, naturalmente dotati di una maggiore immunità e resilienza, siano in reale pericolo, oggetti anch’essi di attacchi funginei patogeni a causa del climate change.
La relazione fisica tra uomo e albero è messa in evidenza nei lavori successivi. Una serie di opere affrontano la relazione profonda che connette gli alberi con l’essere umano, da un punto di vista storico, sociale e culturale. Una predominanza di bianco e nero sottilinea i concetti di perdita e di alterazione.
La fotografia Wild Almond Tree, Cape Town (2016) di Uriel Orlow dialoga con quelle in bianco e nero scattate da Craig Richards nel 2006.
La prima appare come una sorta di radiografia di ciò che resta di un mandorlo selvatico piantato nel 1660 dai primi coloni olandesi per tenere fuori dalle proprietà gli indigeni Khoikhoi e il loro bestiame al pascolo. Le seconde sono invece immagini relative al viaggio in Uganda del fotografo canadese, occasione nella quale realizzò una serie di ritratti fotografici ad alcuni componenti delle comunità Bakonzo, Bamba e Pigmei. In Mubende tra Kampala e Fort Portal la presenza severa e al tempo stesso rassicurante di una donna è protetta dal tronco possente di un gigantesco albero. Come per la maggior parte degli altri ritratti, anche in questo caso la figura umana emerge dal contesto naturale che le sta intorno. Craig Richards riesce a dare testimonianza del senso di appartenenza culturale e di profonda unione con la natura di questi popoli.
Diametralmente opposta è invece la sensazione che evoca la scultura di Aron Demetz. L’essere androgino segna un punto di contatto tra due materiali che l’artista ha recentemente deciso di associare: il legno carbonizzato e il gesso. L’unione dei due elementi rende possibile la visione di un uomo albero che è in procinto di perdere la propria corteccia, o forse di recuperarla.
La consistenza fragile della sua struttura rimarca tuttavia una condizione di equilibrio precario che è al tempo stesso fisica e psicologica.
La sensazione di perdita è sottolineata dai lavori di Giorgia Severi che nel 2012 inizia la “catalogazione” di alberi in via di estinzione o in condizioni particolari per motivi antropici o climatici. Le opere sono calchi in pasta di cellulosa realizzati sulle cortecce degli alberi stessi e riportano l'estetica di reperti archeologici, ritrovamenti e frammenti di qualcosa di antico, come se fossero già relitti di un paesaggio scomparso. Muovendo da questa consapevolezza, Giorgia Severi mette in atto un vero e proprio processo di archiviazione al fine di preservarne la memoria.
Questa escalation di sguardi su alberi, boschi e foreste, nati dal dialogo con le più recenti dinamiche di alterazione ai danni di questi ecosistemi naturali, trovano il loro culmine nell’opera H317 - Può provocare una reazione, 2014, di Marzia Migliora. Il titolo appartiene alle “Frasi H” (frasi di rischio), contenute all'interno del Regolamento (CE) n. 1272/2008. Indicazioni di pericolo sul posto di lavoro che mettono in allerta dai rischi per la salute umana, animale e ambientale connessi alla manipolazione di sostanze tossiche.
L’installazione, nata attorno a una provocazione iniziale su un tema cruciale come quello della sicurezza sul lavoro, è una presenza totemica che si apre a letture multiple.
Ciò che vediamo è infatti un albero della cuccagna senza premi. Il lascito di una festa già conclusa. Un corpo spoglio al termine di una celebrazione dell’abbondanza che ha lasciato dietro di sé solo desolazione e silenzio irreale.

 

Ilkka Halso, Kitka River, 2004 C-print, trittico 183x300 cm, courtesy l'artista e Taik Persons Gallery, Berlino

Tree Time conclude il suo percorso, con una serie di riferimenti al futuro. Un trittico di grandi dimensioni di Ilkka Halso restituisce la sua personale visione del tempo che verrà. L’artista costruisce strutture fisiche e digitali per proteggere laghi, fiumi e foreste dall’impatto antropico. Qui l’ambiente naturale viene messo in attesa e trasformato in qualcosa di completamente artificiale. Qualcosa di molto simile al tentativo di alcuni parchi nazionali di preservare la natura nella sua forma primordiale. Piccole isole, disconnesse e isolate per l'intrattenimento dello spettatore umano. In Kitka River, 2004, la Halso costruisce digitalmente una biosfera per ospitare la famosa curva a S del fiume Kitka, nella Finlandia settentrionale. Enormi coperture a protezione di questo luogo sottolineano la sua visione di un futuro in cui atteggiamento protezionistico e dinamiche di crescita saranno fonte di scontro. Dove i tentativi di protezione si sovrapporranno con la necessità di esplorazione turistica a scopi educativi ed economici. 
Dalla visione iper protezionistica di Ilkka Halso a quella proposta da Gabriella Ciancimino che chiama in causa il tema delle assisted migrations. La giungla di segni e di visioni fitomorfe che emerge dall’installazione site specific intitolata Sea Seeds / Si Siz, 2019, si lega alla sua visione di giardino planetario come luogo della multuculturalità, della libertà e della partecipazione sociale. L’opera è uno spazio all’interno del quale lo spettatore è immerso e nel quale è chiamato a camminare. Questo mare ideale di semi, piante e germogli, è un luogo in cui viaggio, utopia e senso di responsabilità si fondono per superare le tragedie del passato.
Un territorio di semina e di germinazione che chiama in causa le fotografie scattate da Buby Durini a Joseph Beuys mentre pianta Prima Quercia di fronte al suo studio della Paradise Plantation a Bolognano (Pescara), il 13 maggio 1984.

 

 

[1] Hallé F., Ci vuole un albero per salvare la città. Un manifesto per i politici e gli amministratori pubblici, Adriano Salani Editore, Milano 2018, p. 58.

[2] Beuys J., Theories and Documents, Berkeley University of California Press, Berkeley 1996, p. 636.

[3] Bourriaud N., Un’arte poli-soggettiva. Dal paesaggio alla foresta, in Foresta Urbana. Arte e natura del nuovo millennio, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (MI) 2018, p. 26.

[4] Pro Montibus. Associazione italiana per la protezione delle piante e per favorireil rimboschimento, “Atti del Congresso tenutosi a Torino il 17, 18, 19 Settembre 1898 e relazione della Festa degli alberi celebratasi domenica 18 settembre al Monte dei Cappuccini”. Premiato Stabilimento Tipografico P. B. Bellini, Milano 1898, pp. 10-11.

[5] Ivi., p. 14.

[6] Ivi., p. 16.

 

 

 

Tree Time
A cura di Andrea Lerda
Museomontagna, Torino
Fino al 23 febbraio 2020
Artisti: Gabriela Albergaria, Luca Andreoni, Paola Angelini, Thomas Berra, Ursula Biemann and Paulo Tavares, Walter Bonatti, Gabriella Ciancimino, Aron Demetz, Hannes Egger, Ilkka Halso, Helen Mayer Harrison & Newton Harrison, Fosco Maraini, Marzia Migliora, Uriel Orlow, Sunmin Park, Giuseppe Penone, Steve Peters, Giusy Pirrotta, Craig Richards, Vittorio Sella, Giorgia Severi, Wolfgang Tillmans and Santeri Tuori.