L’era che viviamo, possiamo chiamarla dell’Antropocene o del Capitalocene, poco importa, ci offre la possibilità di immaginare e progettare nuovi modi di coabitare la Terra.
Nell’ambito di questa riflessione, che chiama in causa architettura e istituzioni, design e ricerca, e nella quale la sperimentazione di idee deve essere affiancata a quella di metodologie e materiali innovativi, l’arte deve ancora conquistare un reale e riconosciuto ruolo da protagonista.
Ciò nonostante, la capacità degli artisti di generare visioni, siano esse utopiche, derivate dal dialogo con altri saperi, dal confronto con la scienza o da una semplice rivisitazione di immaginari passati, è alla base di quel genio creativo di cui la società ha disperatamente bisogno.

 

 

Gli oggetti e le sculture che Giulia Berra realizza, si caratterizzano per il loro essere forme architettoniche dal carattere effimero, a volte sospese nell’aria, altre installate nello spazio.
La sua produzione, nati dalla stretta relazione con il luogo - l’artista crea spesso i suoi lavori a partire dai materiali trovati nel luogo in cui poi crea - sembrano evocare forme archetipe per architetture inesistenti e dalle quali trarre ispirazione.

Nell’opera Città, una serie di plastici simili a quelli utilizzati in architettura, realizzati con spine, galle, crisalidi di farfalla, vespai, piume, baccelli, trattano di una differente concezione della vita civile, più o meno condivisibile.
Il lavoro, che può essere considerato come la rappresentazione di diverse città ideali, utopiche o immaginarie, è anche una riflessione sul ruolo dell'architettura e dell’urbanistica.
La città di spine esemplifica la repulsione per lo straniero, l'insicurezza, la paura e la grande solitudine connesse ad una volontaria vita in gabbia. Quella di piume, invece, illustra una città-nido, confortevole, piacevole, ma anche avulsa dalla realtà. Quella di galle mostra l'assimilazione nonostante i pregiudizi; quella con le crisalidi di farfalla vuote rispecchia una città metamorfica piena di inespresse risorse. Quella di vespai, d'altro canto, mette in scena una società aggressiva ossessionata dalla propria prole, mentre quella di baccelli parla di città prospere e fiorenti.

La ricerca di Giulia Berra è indirizzata verso una prassi che parte dall'interesse scientifico per la natura e i suoi risvolti antropologici. La materia naturale si trasforma in materiale per sculture o installazioni che spesso hanno un carattere localizzato ed effimero proprio dell'habitat di rinvenimento degli elementi caratterizzanti del progetto site-specific. L'uso di materiali naturali, recuperati in sopralluoghi organizzati o accidentali, spazia da fibre e forme vegetali - quali galle o spine - a spoglie del mondo animale - quali piume di uccelli autoctoni o esotici, conchiglie, pelli di muta di rettili o exuviae di insetti - fino a reperti minerali.
− Fabio Carnaghi

 

 


Andrea Lerda in conversazione con Giulia Berra

 

AL

L’opera Città, un work in progress al quale lavori dal 2010, è a mio avviso decisamente interessante e attuale. L’utilizzo che fai dei materiali naturali per la costruzione dei tuoi modellini, mi porta a riflettere sulla centralità dell’architettura nella progettazione del mondo che verrà. Oggi più che mai, il suo ruolo non si limita alla sola costruzione di edifici o quartieri, ma alla creazione di nuovi spazi del vivere e attraverso i quali riscrivere processi, sistemi e comportamenti.
Le forme di queste città, fantascientifiche, immaginarie, assurde, mi fanno pensare, in qualche modo, alle architetture rivoluzionarie di Etienne-Louis Boullée e Claude Nicolas Ledoux.
Mi racconti come è nato questo lavoro e a quali modelli di architettura fai riferimento?


GB

Penso che la mia attuale ricerca non  sarebbe ipotizzabile senza tre mostre che rivoluzionarono il mio modo di concepire l'arte a cavallo degli anni 2008-2010: Christiane Löhr alla Galleria Ala, Giuseppe Penone al Mambo di Bologna e Frank Gehry alla Triennale di Milano. Era un periodo di dubbi e forte insoddisfazione personale, e iniziai a pormi domande differenti, mentre Milano iniziava a risentire dei fermenti legati all'Expo e alla crescente coscienza ambientale. In quel periodo iniziai a disegnare tantissimo su taccuini dove si stratificavano rapide impressioni multiformi: diari intimi, frammenti di mostre, annotazioni per la mia tesi sull'Empatia, appunti sull'Art Nouveau, Decò e Sant'Elia, di cui da tutor didattica a Brera dovevo preparare il supporto iconografico, o di Semiologia del Corpo, schizzi del tetto di Stazione Centrale nelle mie lunghe attese di pendolare. Il treno mi portò compagni di viaggio del Politecnico. Avevo pochi soldi, poco spazio e non guidavo, sentivo e vivevo la fragilità, la precarietà, la crisi economica e strutturale. Iniziai a creare piccole sculturine da quasi autodidatta, io che venivo da pittura e conoscevo solo linee, luce, colore e superficie e ripensai il mio mondo in un modo diverso dai modellini che spuntavano ovunque descrivendo una metropoli futura, smart&green, in cui intuivo logiche che non mi appartenevano. Il tavolo di casa mi diede le misure, i mezzi pubblici e la Posta il peso, il Design il modulo, l'Architettura la concezione dello spazio attraverso il disegno -i miei sono tutti disegni nello spazio- i miei amici coreani il Vuoto, che nella mia città di liutai è spazio di risonanza e musica. L'imprinting naturalista di un papà entomologo e gli studi umanistici del liceo fecero il resto. Gli anni successivi mi portarono a collaborare con designer di Eindhoven e a conoscere Best Up, il circuito per l'abitare sostenibile, e Goodesign...E' tutta una stratificazione, una sedimentazione di suggestioni che trova forma. E poi mi annoio, mi sembra di ripetermi, e cerco altro.

 

AL

Quali riflessioni ti interessa sollevare associando l’architettura e la città ai materiali naturali?


GB

I materiali naturali affiorarono di colpo nel 2009, affiancati da tante altre cose in una gran confusione, e poi emersero potentemente negli anni: la serie delle Città è la prima in cui diventano veramente protagonisti senza prevedere altro, quasi per caso. Dove ci sarebbero vetri e muri creo il vuoto, uso solo i contorni e creo strutture di soglie. Non ci sono solidi pilastri, ma la Natura è l'intelaiatura portante e l'aria passa ovunque. Ogni opera nasce dall’osservazione di dinamiche del contemporaneo o culturali o naturali, oppure da letture, molto varie. Sono metafore, visioni e narrazioni alternative della contemporaneità.

Mi ha sempre colpito l'idea che l'architettura contemporanea sia mutuata dalle prime serre attraverso il Crystal Palace di Paxton. Magici palazzi di specchi, su cui si riflette il cielo e sbattono gli uccelli, con condizionamento artificiale e habitat asettici. Di notte con le luci accese sono magici esoscheletri disabitati del potere, chi li anima di giorno è migrato in periferia o in cittadine e paesi ridotti a dormitori. Abbiamo pensato i grattacieli crollassero con le Twin Towers, invece crescono sempre più alti, più belli e più fallici, provano ad ammantarsi dai boschi che l'edilizia sottrae ogni anno. Ci sono centri storici con piazze senza socialità e centri commerciali di incontro senza acquisti. Nei render che abitiamo le aiuole non vanno calpestate, nei cortili non si deve disturbare e nelle strade si deve solo passare, monitorati da occhi tecnologici. Tocchiamo con mano i limiti di una società sempre più visiva e meno corporea, in cui affidiamo la nostra identità agli oggetti e perdiamo la storia. E poi...molte soluzioni apparentemente avveniristiche ai problemi odierni sarebbero nelle torri del vento persiane, nella mescola del cemento romano, nei termitai o nei nidi. Nei supermercati si trova la frutta già sbucciata nella plastica, ma Munari portava una semplice arancia come insuperabile esempio di progettazione.

 

 


AL

Il tuo lavoro propone un immaginario fatto di luoghi potenzialmente abitabili, nati da ispirazioni e suggestioni che provengono dal mondo naturale, sia esso vegetale o animale. Hai parlato in effetti di empatia. Un tema sul quale, in questo momento, sto concentrando le mie ricerche. Mi racconti in che modo questo concetto ti interessa e in quale maniera è per te fonte di ispirazione?


GB

Sono da sempre interessata all'aspetto “spirituale” dei manufatti attraverso i secoli e le culture, e e negli anni ho cercato di capire come un oggetto artistico possa sembrare dotato d’anima o come si possano trasferire su di esso i propri sentimenti. Ho studiato prima l’arte contemporanea in relazione al simbolo, all’icona, all’idolo e al feticcio, alla capacità emozionale di segni, forme e colori, poi ai neuroni a specchio e al corpo e alla possibilità di creare cortocircuiti emotivi con operazioni concettuali. Mi interessava anche capire la progressiva sostituzione emotiva degli oggetti devozionali, trascendenti o “significativi” con opere d’arte che ne ricalcavano di fatto alcuni aspetti coloristici, compositivi e strutturali a fini espressivi. La decisione di utilizzare quasi esclusivamente “oggetti trovati” deriva proprio dal tentativo di creare opere con elementi che rechino una traccia del proprio vissuto, senza abbellimenti e fronzoli (ad esempio, le penne e piume di muta che utilizzo sono ben diverse da quelle perfette dei collezionisti o utilizzate a fini estetici). Ugualmente utilizzo spesso il ricamo come disegno perché mi sembra ricalchi più il gesto che lo genera. Le mie opere sono molto semplici, con forme essenziali che assommano in sé più echi archetipici. Tutto è a vista, anche il ripensamento, l'errore, l'imperfezione. Le mie sculture nascono fortemente tattili, per le lunghe passeggiate di raccolta, per l'intensa manipolazione per cogliere peso, superficie, statica di ogni singolo elemento e relazionarlo agli altri, dimensione che provo a restituire anche nelle foto di documentazione, che spesso trascrivono lo sguardo cauto ed estremamente ravvicinato che assume l'osservatore. Io stessa le volto e rivolto più volte, le guardo, maneggio e ci giro intorno durante l'esecuzione, di modo che non ci sia mai un'unica prospettiva, ma parlino sempre e comunque. Per le installazioni studio il luogo sentendolo, immergendomi con i sensi o il pensiero se non lo posso percorrere, e costruisco lo spazio con la luce e il corpo, prevedo movimenti e sensazioni delle persone. Immagino che le mie città possano essere viste come essere modellini di edifici incentrati sulla percezione, sulla sensorialità e la fruizione, in simbiosi con la Natura, ma in realtà non le ho mai concepite in scala reale, architettonica, ed è un'astrazione che mi è difficile.

 

AL
In questo momento ti trovi a Berlino, in residenza con il programma di residenze Fresh A.I.R. Della Stiftung Berliner Leben in collaborazione con l’Urban Nation Museum for Urban Contemporary Art. La tua ricerca torna nuovamente a dialogare con il contesto urbano. Su cosa stai lavorando?


GB

Nel Giugno 2019 fui colpita dai parchi berlinesi, dall'impostazione molto spontanea e quasi boschiva, e dalle aiuole anarchiche e naif in cui coabitano alberi, fiori, erbacce, ortaggi, casine per i passeri e decorazioni varie, in una metropoli cantiere di massicci parallelepipedi e pattern geometrici. Venivo  nella capitale a vedere Friedrich sulla scorta di Landscape and Memory di Schama, e vi trovai una dimensione inaspettata. Ma conoscevo davvero poco la città, e per la candidatura presentai un progetto aperto in un'architettura da individuare e il fermo proposito di approfondire il paesaggio urbano nei sei mesi di residenza. Poi la pandemia ha riscritto le nostre vite, e la mia Berlino da mesi è fatta di strade, facciate, scoiattoli fulvi e suole consumate, visto che il desiderio originario di scoprirla camminando e raccogliendo materiale all'aria aperta è diventato necessità. Ho uno studio enorme e lavoro in grande. La mostra finale sarà virtuale, ma mi sto organizzando per creare installazioni in esterna, temporanee, anche estemporanee, ma visibili a tutti: ho una concezione molto fisica dell'arte e della sua esperienza e, visto che prevedo che il problema della chiusura degli spazi culturali sussisterà per molto tempo, voglio trovare vie alternative. Ho già terminato due installazioni site specific, una con rami caduti raccolti nel Tiegarten legata al concetto di limite e barriera, memore del Muro e del primo terribile lockdown, l'altra, in rafia, totemica e ancestrale, ispirata al Berliner Golden Hut.  Altre due, legate alla soglia, al passaggio, e alla caducità sono in fase di elaborazione, perché prevedono piccoli interventi su edifici nel quartiere di Shöneberg e devo verificarne la fattibilità. Disegno tanto. Sento che il mio immaginario è cambiato, più legato alla terra e meno alla fluidità, più corposo, senza i listelli di legno di molte mie sculture, per esigenze logistiche e per la paura di infortuni, e con l'horror vacui del confinamento e dell'ansia dell'invisibile che ogni tanto fa capolino.

 

 

 

AL   

Sempre in relazione al discorso sull’empatia, mi sembra che il progetto al quale stai lavorando per la residenza, attivi in qualche modo una relazione fisica tra l’essere umano, racchiuso all’interno di una città, e la natura, in questo caso rappresentata da un “muro” vegetale che andrai a collocare sui portoni di accesso di alcuni edifici di Berlino.
L’esperienza fisica di contatto e di dialogo con l’elemento naturale è per la ricercatrice Hung Ruyu, uno strumento fondamentale per sviluppare empatia verso la natura. Installare questi portali “vegetali” all’interno di un contesto urbano mi sembra possa essere funzionale ad attivare una riflessione su quello che la stessa Hung Ruyu definisce come il “sense of place”. Ti riporto una domanda che la ricercatrice solleva nel suo saggio “In Search of Ecopedagogy: Emplacing Nature In the Light of Proust and Thoreau: “In the times of ecological crisis, is it possible for the profound sense of place to be illuminating for sustaining the place and nature?”

 

GB

Attivare una relazione o una riflessione? Speriamo! Gli interventi che sto progettando non costituiranno un muro, ma saranno interstiziali ed effimeri, come marginali e resilienti sono le realtà vegetali che rappresentano, individuate nei primi mesi di assurda siccità con le prime avvisaglie di inverno tedesco. C'è idea di resistenza, connessione con la Natura, certo, ma anche tanto di transitorietà, provvisorietà e perdita, perdita di qualcosa cui è stato dedicato tempo e cura, che è apparso all'improvviso ed è destinato a non durare e deperire per mano umana o per gli agenti atmosferici. O, almeno, questo è l'intento, poi, come ti dicevo, devo ancora appurare la fattibilità. Non conosco le teorie della Hung, per cui ti posso rispondere solo grazie ad una veloce ricerca online. Da bambina sono cresciuta avventurandomi in vari ambienti al seguito di mio papà, quindi la mia casa era una specie di wunderkammer, giocavo con  le pietre, i legnetti, i semi e le piste delle formiche...So leggere e riconoscere varie piante, animali, habitat, cammino e nuoto molto, ma resto essenzialmente una cittadina, per cui non ho la conoscenza intima e circostanziata di chi pratica da sempre il paesaggio. La mia dimensione è il parco, più che il bosco, ma, contrariamente alla maggior parte delle persone, ho sviluppato una forte attenzione per i dettagli anche insignificanti con cui la natura ci parla e si manifesta, e questo si evidenzia soprattutto  nel contesto urbano. Per quanto riguarda questi interventi voglio che i portoni siano soglie, passaggi e paesaggi con piccole elementi rivelativi, che alterino la percezione di elementi familiari e banali, sia per i passanti, sia per gli abitanti. Ho previsto una serie di scarti che a primo acchito appaiano uno spreco non funzionale ed illogico fra tempo dedicato alla realizzazione e caducità, soggetto e tecnica, colore sensuale e contesto, che possano aprire spiragli come i mandala buddisti di sabbia colorata, o, quanto meno, focalizzare l'attenzione su qualcosa normalmente giudicato irrilevante. Poi il senso del luogo per me parte dalla riappropriazione, dal viverlo e curarlo e custodirlo, stabilendo una relazione affettiva, che passi anche dalla condivisione, dalla socialità e dall'esperienza fisica, dallo “starci”, mentre le spinte attuali portano al trasformare troppo spesso l'abitazione in domicilio temporaneo raccordato a posti di intrattenimento e lavoro, finalizzato e funzionalizzato, e lo spazio attorno (strada, cortile, giardino, orto, pascolo) scompare. Ma vedo che la pandemia ha avvicinato gli animali, molte persone sentono il bisogno di toccare la terra, coltivare, andare in campagna, forse qualcosa sta cambiando più in fretta del previsto.

 

 

Per tutte le immagini, courtesy l'artista.